Attualità

October, 2006
Investigation
 

Una giornalista occidentale va a vivere in cisgiordania nella casa di un leader di hamas e delle sue due mogli. e si trova in mezzo a due guerre di sopravvivenza: una politica, l’altra poligama

di Christine Toomey

Foto di Heidi Levine

All’inizio le due mogli erano sospettose. Il marito, Waelal-Husseini, aveva lanciato una monetina al figlio maggiore chiedendogli a mo’ di scherzo di andare a comprare un materasso in più. Sentivo che, a differenza del loro marito, le donne non trovavano quel gesto divertente. Così suggellammo un patto straordinario: sarei tornata per vivere con la loro famiglia; sarei stata la terza donna della casa per raccontare la storia delle due mogli di un parlamentare di Hamas. Donne che, come loro, hanno votato in massa per portare il partito al potere, con una vittoria elettorale che ha rappresentato uno schiaffo a Israele.  È attraverso mogli e madri come loro che si può comprendere come un movimento islamico considerato a livello internazionale un’organizzazione terroristica sia potuto andare al governo. Che delle donne religiose a lungo sottovalutate come “tende silenziose che camminano” abbiano finalmente mostrato la loro influenza elettorale viene spiegato con la corruzione e l’incompetenza di Fatah e il diffuso senso di frustrazione provato nei confronti di questa fazione, un tempo capeggiata da Arafat, che ha dominato la politica palestinese per 40 anni. Ma c’è dell’altro: in molti ritenevano che il processo di pace fosse  ormai morto e, come osservato da un analista, “quando si perdono le speranze nella realtà, ci si rivolge a Dio”.  La prima volta che incontrai la famiglia al-Husseini non avrei potuto immaginare che vivendo con loro avrei presto scoperto il motivo per cui così tante donne, nelle parole dell’analista, erano diventate “fanatiche di Hamas”. All’epoca, Hamas rispettava un periodo di tregua: era dall’estate precedente che non mandava kamikaze in Israele e tentava di crearsi un’immagine che meglio si addicesse alla politica tradizionale.  Le immagini di Huda Ghalia, una bambina di dieci anni che con la testa tra le mani in segno di disperazione si aggira tra i corpi senza vita dei suoi familiari, uccisi da bombe israeliane durante un picnic su una spiaggia di Gaza, non avevano ancora raggiunto le tv di tutto il mondo. Israele continua a negare ogni responsabilità in proposito, ma il giorno successivo Hamas dichiarò la fine del cessate-il-fuoco e – con il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit – mise in moto gli eventi che con i bombardamenti del Libano hanno poi fatto precipitare il Medio Oriente nella guerra. Quando arrivai alla casa di al-Husseini per vivere con la famiglia erano passate solo poche ore dal rapimento, e la regione non era ancora piombata nel violento vortice che è seguito. Wael doveva recarsi in Libano a una conferenza. Che all’avvicinarsi dell’occhio del ciclone un rappresentante di Hamas decidesse di recarsi all’estero mi sembrava sospetto. Eppure, quando arrivai nella casa di Ar-Ram, vicino a Ramallah, in Cisgiordania, c’erano pochi segni di tensione. A tavola, davanti a una colazione a base di hummus, falafel e pane, tutti erano rilassati, anche se Israele era sul punto di entrare con i carriarmati a Gaza. Subito mi spiegarono l’organizzazione familiare. Gli al-Husseini occupano una casa in cemento a due piani accanto alla scuola islamica (madrassa) frequentata da 600 studenti di cui Wael è preside. La sua seconda moglie, sposata due anni fa, si chiama Khulud, ha 35 anni e abita al piano superiore con il figlio di 6 mesi, Hamzeh. Al piano terra vive Alia – sposata a Wael da 20 anni, che ha 10 mesi meno di Khulud – con i sei figli: tre femmine (Ni’mah 17 anni, Arwa 16, Bara’a 6), e tre maschi (Khaled 15 anni, Seif 12, Omar 10). Nell’Islam se un uomo prende più di una moglie – può averne fino a quattro – deve offrire a ciascuna lo stesso sostegno materiale e le medesime attenzioni. Wael, che ha 43 anni, trascorre una notte con Khulud al piano superiore e la successiva di sotto con Alia. “Sono entrambe felici”, dice con un bagliore nello sguardo. In realtà c’è un ben più complesso interagire di emozioni che lentamente emergono quando svaniscono i sospetti di Alia e Khulud riguardo al fatto che il marito mi accogliesse in casa. All’inizio, come sempre in una società così maschilista, solo Wael parla; racconta che i suoi fratelli lo convinsero a studiare ingegneria in Arabia Saudita anziché medicina in Romania “dove avrei potuto essere tentato dalle belle donne”. Nato a Betlemme, secondo in una famiglia di cinque maschi e sei femmine, a Riad nei primi anni ’80 Wael inizia a interessarsi alla Fratellanza Musulmana, il movimento da cui sarebbe poi derivato Hamas. Al suo ritorno in Cisgiordania ha aperto una madrassa, e ha preso parte a iniziative della comunità come “piantare alberi e spazzare le strade” organizzate da Hamas. Allora era un movimento di resistenza islamica che secondo un’opinione diffusa godeva del tacito supporto di Israele, desiderosa di contrastare i gruppi popolari e nazionalistici che facevano capo all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), ma non appena iniziò a minacciare la sicurezza di Israele con la resistenza violenta iniziarono gli arresti. Wael stesso tra il 1988 e il 2005 venne arrestato otto volte e tenuto per oltre due anni in uno stato di “detenzione amministrativa, reclusione in assenza di incriminazione. E nel 1992, fu uno degli oltre 400 palestinesi vicini ad Hamas deportati dagli israeliani per un anno in un campo di tende in Libano. I soldati israeliani che li sorvegliavano, racconta, spruzzavano sui prigionieri con le gambe incatenate ai sedili di un bus, il contenuto delle buste di plastica nelle quali urinavano.  Mentre tutti ascoltano, Khulud mi confida: “È la prima volta che sento queste storie. Resta con noi quanto vuoi, e continua a fare domande. Abu Khaled non è mai stato presente alla nascita dei suoi figli: era sempre in prigione”, prosegue, usando il termine abu, “padre di”, a differenza di Khulud si riferisce al marito con il suo primo nome. Si percepisce una strisciante rivalità tra le due donne. Non sanno che al mattino, mentre mi trovavo nel suo ufficio, Wael mi ha parlato apertamente di come cavalchi la loro gelosia. “Mi tiene vivo e mi permette di mantenere il controllo”, mi ha confidato con un sorriso. E, felice di essere l’oggetto dell’adorazione e degli sforzi che la prima moglie fa per conquistarsi la sua attenzione, insiste: “Le donne che non permettono al marito di prendere la seconda moglie sono egoiste”. Ma quando gli dico che il suo senso dell’umorismo non si addice all’immagine che all’estero si ha del fanatismo di Hamas, cambia tono: “Lo stereotipo di un politico di Hamas è quello di un terrorista: aggressivo, incivile e bugiardo. Sì, esistono estremisti nel nostro movimento, come ce ne sono in Occidente. Personalmente odio i kamikaze, sono un errore. Odio che dei civili innocenti muoiano in azioni simili e credo che ci spetti una punizione divina per questo. In proposito l’Islam è chiaro: non si devono uccidere i civili. Ma sono atti disperati, compiuti da persone che non vedono alternative. Ogni nostro attacco contro Israele è denunciato come terrorismo mentre i loro attacchi, in cui muoiono donne e bambini innocenti, sono giusitificati come legittime azioni militari”. Negli ultimi dieci anni Hamas ha lanciato contro Israele oltre 40 attacchi suicidi. Eppure, Wael dichiara di non conoscere l’ala militare del movimento. La mattina dopo, però, mentre lo accompagno fino a Gerico, mi rivela che suo fratello maggiore, ucciso due anni fa in Giordania, era a capo di una cellula militare di Hamas. Un altro fratello che viaggia con noi ammette che gli israeliani gli abbiano detto più volte che “considerano Wael più pericoloso del nostro fratello maggiore, perché è un intellettuale, è molto rispettato e ha una grande influenza”. Non sorprende allora che raggiunto il confine Wael venga lasciato ad aspettare per ore prima di essere respinto dai soldati israeliani e debba tornarsene a casa. Quando la mattina dopo rivedo la famiglia, gli occhi infossati di Alia e Khulud e i volti pallidi dei figli testimoniano il dramma che ha avuto luogo nella notte. Dopo mezzanotte, decine di soldati hanno circondato la casa, hanno buttato giù a calci la porta del retro e costretto con le armi Wael a salire su una jeep. Solo Khulud ha assistito a tutto: era il suo turno per stare con il marito. Quella notte in tutta la Cisgiordania erano state portate a termine decine di azioni analoghe, in un attacco a sorpresa contro Hamas. Un terzo del gabinetto palestinese – 8 ministri, compreso il vice primo ministro – 20 membri del Parlamento e 40 leader cittadini sono stati prelevati dalle loro case e rinchiusi in un carcere vicino a Ramallah. Nel frattempo gli israeliani bombardavano la Striscia di Gaza. Nelle due settimane seguenti oltre 60 palestinesi – tra cui molte donne e bambini – sono morti sotto i bombardamenti, e un soldato israeliano è rimasto vittima del fuoco amico. Temevo che, data la situazione, la famiglia non volesse più un’estranea in casa. Ma le donne sembravano credere che la mia presenza potesse proteggerle da ulteriori rappresaglie, e non solo mi rinnovarono l’invito a restare, ma nei giorni che seguirono – e in assenza del marito – iniziarono a confidarsi con me. La prima è stata Alia: “Abu Khaled si è risposato mentre mi trovavo in ospedale a Nablus”, racconta. “Mi ero bruciata con dell’acqua, avevo ustioni di terzo grado e mi hanno fatto un trapianto di pelle. Non sapevo nulla, e quando sono tornata a casa e ho scoperto che aveva preso una seconda moglie sono rimasta profondamente turbata. È stato molto difficile”. Quando Alia ha provato ad andarsene e tornare dai suoi genitori, la famiglia del marito – in particolare la suocera – glielo ha impedito. Il motivo per cui Wael ha preso una seconda moglie, le ha spiegato lui è “così lei ti può aiutare nelle faccende domestiche”. Alia però ha scoperto che Wael aveva affittato un appartamento dove intendeva vivere parte del tempo con Khulud. “L’ho supplicato di restare con me”, dice, “e la prima volta che mi portò Khulud per presentarmela non ho pianto. A un tratto mi sono sentita molto serena e sono rimasta calma. Questo l’ha innervosita”. Diversa l’opinione di Khulud. Lei racconta di come si fosse preparata per affrontare quella che considerava come la passiva aggressività di Alia. Khulud era già stata sposata quando aveva 16 anni. Due anni dopo il marito volle divorziare perché non era riuscita a soddisfarlo. Da allora Khulud – cosa insolita in questa società – ha preso in mano la propria vita di donna sola aprendo un negozio di parrucchiere, pur continuando a vivere con i genitori. “Il lavoro mi ha aiutata a trattare con persone di ogni tipo: per questo sapevo che affrontare la prima moglie sarebbe stato facile. Alia all’inzio è stata aggressiva con me e l’ho lasciata fare: dopo tutto avevo invaso il suo territorio, e fingevo di ignorare le sue frecciatine. Credo che a rendermi attraente agli occhi di Wael sia stato il mio carattere forte e indipendente”. Alia contesta questa versione: “Prima di sottoscrivere il contratto matrimoniale, Wael l’aveva incontrata una sola volta, quindi non posso immaginare che ad attrarlo sia stato il suo carattere”. Ammette però che Khulud ha delle qualità che a lei mancano. E non c’è da sorprendersene: a differenza di Khulud, che si è sposata la seconda volta relativamente tardi, il matrimonio con Alia era stato combinato dalla sua famiglia quando lei aveva 14 anni e Wael 24. “Ero giovane, non sapevo nulla”, dice. “Khulud è stata in mezzo agli altri, ha sentito le loro storie, è più sicura di sé e, lo ammetto, è più veloce nelle faccende. Adesso capisco che mio marito non cercava una donna più bella, ma desiderava sentirsi meglio. Lo amo e accetto, ma non ritengo più di avere con mio marito un matrimonio completo. Quando va di sopra per passare la notte con Khulud bacio le sue calze”, confessa. Più tardi, Khulud rivela che quando si è sposata non sapeva che Wael avrebbe alternato le sue notti tra lei e Alia. “Non è facile nemmeno per me”, dice. Ma, aggiunge, spesso al pomeriggio Wael viene di sopra anche quando tocca ad Alia, “perché qui è più tranquillo”. Di giorno nella casa tutte le porte restano aperte, in modo che i bambini possano stare con il padre ovunque lui si trovi, e la famiglia mangia insieme. Di notte però le porte si chiudono, e i due piani diventano appartamenti separati. Per quanto tali compromessi possano apparire strani, quando in passato le donne laiche palestinesi scesero in piazza contro la poligamia, denunciata come “avvilente per le donne”, vennero accusate di ottusità proprio da coloro che, come Khulud e Alia, vivono una condizione simile. In Occidente gli uomini si fanno amanti: la poligamia, dicono, è più morale. Sebbene in privato le due donne mi confessino l’angoscia che viene loro da un matrimonio condiviso, quando sono in compagnia l’una dell’altra mi assicurano di andare d’accordo “come sorelle”. Durante i giorni e le notti trascorsi con loro, vedo con quale calma si ripartiscono i lavori domestici. Alia si dedica più alla cucina, Khulud al bucato. E mentre è Wael che va a fare la spesa, in sua assenza questo compito – oltre alle responsabilità economiche della famiglia – passa a Khulud, mentre Alia riceve solo una modesta somma di denaro. La vita di Alia appare molto più limitata di quella della seconda moglie. Quando, per esempio, lei dice ai cognati di voler visitare i propri genitori a Nablus, la richiesta viene subito respinta. Ma quando Khulud annuncia di andare al suo salone di parrucchiera che ha appena riaperto nessuno si oppone. Così, il giorno dopo accompagno Khulud al lavoro. Il viaggio è complicato, benché il villaggio di Qatanna sia visibile da Ar-Ram e un tempo per raggiungerlo bastavano dieci minuti. Adesso le cose sono cambiate, e lo stesso tragitto può richiedere ore a causa di quella che gli israeliani chiamano una “barriera di separazione anti-terrorismo”: un imponente muro di cemento con filo spinato elettrificato che attraversa la Cisgiordania, giudicato illegale dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aia.  I nostri bus procedono a zigzag per evitare il muro, ed è chiaro quale piaga rappresenti per i palestinesi questa barriera che spacca le loro comunità, divide le famiglie e isola molte persone dal posto di lavoro. “Non so se potrò continuare a lungo a fare questo”, dice Khulud. “Qui molti hanno perso il lavoro che gli dava da vivere. Ci rendono la vita impossibile: non c’è da stupirsi se ci sono quelli che esplodono dalla rabbia”. Questa frustrazione sottolinea il profondo senso di sconforto che accompagna la vita dei palestinesi, e in particolare le donne che risentono pesantemente delle conseguenze del conflitto. Quando chiedo a Khulud e Alia quale futuro immaginano per i loro figli, dicono di sperare che studino, trovino un lavoro, abbiano una famiglia e una vita felice. “Ma che possibilità abbiamo che ciò accada?”, si domanda Khulud. “A volte, mentre cullo Hamzeh vorrei che fosse abbastanza grande da girare armato…”. Quando simili desideri sono trasmessi ai giovani, che possibilità può avere la pace? Come in ogni cultura, speranze e valori sono tramandanti con il latte materno.  È con questo pensiero che vado a incontrare Ni’mah, la madre di Wael, la donna che sembra prendere ogni decisione e la cui presenza incombe pesantemente sulla vita di Khulud e Alia. Mi bastano poche ore in sua compagnia per mettere a fuoco le dinamiche personali e politiche della famiglia. La casa sorge all’interno delle mura della madrassa diretta da Wael. Ni’mah siede in poltrona, mi scruta e prima di parlare strizza gli occhi per qualche istante. “Alia quando si è sposata era molto giovane. Pensavamo che sarebbe maturata: con il tempo una moglie dovrebbe imparare a soddisfare meglio le esigenze del proprio marito, ma questo non è accaduto. È solo in casi estremi che un uomo prende una seconda moglie, ed è passato molto tempo prima che ci trovassimo d’accordo con Wael sul fatto che fosse quella la soluzione giusta. Alia avrebbe dovuto essere più premurosa con il marito: un uomo richiede attenzione, e a Wael piace l’ordine, piace apparire elegante. Khulud è una lontana parente, qundi sul suo comportamento ho un certo controllo. Se un uomo prende una seconda moglie è la prima moglie a esserne responsabile. Se una persona non è capace di fare la moglie perfetta per mio figlio, dovrebbe stare attenta”, dice con fare minaccioso.  Dal modo in cui parla e da quanto Wael mi ha precedentemente spiegato, una moglie “perfetta” è quella che non solo è costantemente attenta al marito ma è anche capace di lavorare velocemente e amministrare la casa con frugalità.  “Amo molto i miei figli”, continua Ni’mah. Suo marito, un uomo magro che non ha mai preso una seconda moglie, siede al suo fianco in silenzio, appollaiato su una seggiola. “Li ho sempre incoraggiati a essere patriottici e religiosi”. E va avanti a raccontare di come nel 1948, quando i britannici si ritirarono dalla Palestina e venne fondato lo Stato di Israele, la sua famiglia fu cacciata dall’ampia tenuta vicino a Gerusalemme che le apparteneva da generazioni. “Per me la parola di Dio è più importante dei miei figli”, dichiara. “E Dio dice che dobbiamo dichiarare la jihad per riprenderci la nostra terra da coloro che ce l’hanno sottratta. E se Dio insiste che devo sacrificare i miei figli, lo farò”. La mattina dopo, quando mi congedo da Alia, Khulud e i loro figli, provo una maggiore comprensione per le difficoltà personali e poltiche che devono affrontare. Una rappresentante di Hamas al Parlamento, il cui marito dal carcere ha preso una seconda moglie, descrive le circostanze in termini analogamente infuocati. “La poligamia è come combattere una guerra”, sostiene. “Un soldato va in guerra per difendere il proprio Paese, ed è consapevole di poter morire, ma lo fa per una causa nobile, e Dio ci ordina di accettarlo. Accettando la poligamia io mi sento come un soldato che mette in atto la volontà di Dio, per quanto dura possa essere”.  Nella sua battaglia, la “causa nobile” è quello che lei definisce “il godimento di uomini e donne”. Ma non è difficile capire come siano gli uomini molto più che le donne, a godere i frutti di un conflitto così intimo. Mentre Wael langue in prigione, Alia e Khulud restano sole a domandarsi con chi di loro, una volta scarcerato, trascorrerà la prima notte. L’ultima volta che è uscito di prigione Wael si è trovato di fronte a un dilemmma analogo, e volendo trattare entrambe le mogli con equanimità ha cercato il consiglio di un leader religioso, il quale gli ha consigliato di tornare nel letto della moglie con cui si trovava la notte del suo arresto. Si trattava, in quel caso, di Khulud. Poiché anche questa volta Wael è stato arrestato poco dopo essersi coricato con Khulud, questa spera che lui torni a passare la prima notte con lei.  Coerente con la sua natura gentile, Alia si rassegna a una simile eventualità. “Voglio che torni a casa”, sospira. “Come si possono crescere dei bambini in queste condizioni, con un padre che gli viene sottratto di continuo? Non ci resta che riporre la nostra fede in Dio, e questo per noi significa Hamas”. ©The Sunday Times Magazine (Fotografie dell’ag. Sipa Press/F. Speranza